È passata circa una settimana dalla straordinaria vittoria di Tom Domoulin alla corsa rosa. L’olandese, forte atleta specializzato nelle corse contro il tempo è diventato così noto anche a quel pubblico di non appassionati a questo fantastico sport o ai classici “birra e divano della domenica” che si divertono a fare zapping sul televisore. È sempre stato un corridore interessante, uno di quelli che agisce nell’ombra, vince, stravince eppure fa parlare poco di se, rimane nella sua semplicità silenziosa.
Ho incontrato per la prima volta Tom Domoulin al tour de Suisse 2015, in realtà lo avevo già visto molte altre volte, ma se vogliamo parlare di “finalmente lo conosco bene” dobbiamo fare riferimento alla corsa elvetica. Era la prima tappa, un cronoprologo sotto il sole cocente che batteva su Bellinzona; io come al solito patteggiavo per il mio mito Fabian Cancellara che in quelle terre è servito e riverito ed ha pure una corsa tutta sua. In sala stampa viaggiavano i pronostici e nella lista stilata scorsi accanto ai vari esperti proprio Tom. In zona di partenza lo si riconosceva facilmente, indossava la divisa con i colori dell’Olanda ed era il più taciturno, ogni tanto si concedeva a qualche sorriso per poi reimmergersi subito nella sua concentrazione. I suoi occhi parevano distaccarsi da quel mondo reale per proiettarsi già nel futuro, ripercorreva mentalmente il percorso che avrebbe dovuto affrontare. Quel giorno andò veloce come un treno, vinse la prima tappa e si aggiudicò tutte le maglie che la corsa metteva a disposizione. La cose che mi colpirono di quel ragazzo fu la sua gentilezza e la sua emozione, sul palco sorrideva e in sala stampa ringraziava chiunque gli facesse una domanda, addirittura arrivò a scusarsi perché non era in grado di replicare in italiano.
Fu così in quell’occasione che conobbi Tom Domoulin, fino a quel momento credevo che fosse solo un cronoman, tanto che quando gli chiesero quanto avrebbe potuto tenere quella maglia lui rispose ridendo, mica era uno scalatore! Fatto sta che alla fin dei conti lottò con i denti per tenerla fino alla fine aggiudicandosi il terzo gradino del podio nella generale. Quel giorno però quando gli feci i complimenti insieme al suo grazie mi disse anche che non era un campione, non aveva fan ma amici che lo sostenevano, avrebbe fatto di tutto per dare il suo meglio. Non sono sicura se in quei giorni avesse mai pensato di poter vincere un grande giro, ma quello stesso anno la vuelta rischiò pure di finire nelle sue mani, perse la maglia solo all’ultimo, ma in quel caso fu l’inesperienza a pesare sulle sue spalle.
Nel 2016 al Giro fece il colpaccio, si prese la prima tappa e dei giorni in maglia rosa, poi venne colpito dalla sfortuna, forse non era ancora pronto per la vittoria finale. Ci parlai alla partenza di Modena, lui gentile come sempre mi sorrise e poi mi disse sinceramente “ parto, ma non so se arrivo”, intanto rideva, infatti pochi chilometri dopo abbandonò la corsa rosa.
Quest’anno all’inizio del Giro del centenario come consuetudine in famiglia discutemmo sul bersaglio privilegiato del nostro tifo, io esordii con un “tifo per Domoulin”. Come al solito la scelta mi venne dal cuore perché sì, io non tifo mai quello che dovrà vincere ma scelgo in base alla simpatia e alle emozioni che crea quando va in bicicletta. Era una frase buttata lì, seguita a ruota da mio padre, ma che aveva un non so che di utopistico perché diciamocelo con tutta la buona volontà un cronoman come avrebbe potuto competere con due scalatori come Nibali e Quintana? Poi però venne il Blockhaus, la prima vera salita del Giro, quella domenica sorprendentemente l’olandese fu colui che resistette fino alla fine al colombiano e dopo il giorno di riposo andò a conquistare la rosa con un vantaggio vertiginoso. Fummo colti dalla felicità che però era limitata ad un “dai, almeno per qualche giorno lo vedremo in rosa”. A Bagno di Romagna al termine della prima giornata da leader a chi gli chiedesse se aveva possibilità di resistere alle montagne rispondeva con un “ sì, un po’ le conosco, ma io non sono uno scalatore”. Poco prima della conferenza stampa, mentre ancora il vincitore di giornata rispondeva alle domande dei giornalisti, me lo ero trovato seduto dietro di me, silenzioso come al solito, mi ero seduta accanto e gliela avevo buttata lì “sai, secondo me potresti arrivare a milano, io ci credo”, lui aveva ricambiato con un sorriso dicendomi che sarebbe stato un piccolo sogno.
Il tutto era rimasto in uno stadio utopistico fino al sabato successivo ad Oropa, al suo arrivo davanti a tutti si era sentito il mio urlo provenire dalla mischia dei fotografi, ero al settimo cielo, non potevo nasconderlo, forse quel sogno non era poi così tanto strano, ormai ogni giorno lo vedevo di un rosa sempre più raggiante. Poi iniziò la terza settimana, quella che di solito è la più dura di tutte, per lui incominciò nel peggiore dei modi, è inutile specificarvi come, ormai le vignette di presa in giro dilagano a vista d’occhio, ma nonostante ciò mantenne la sua prima posizione. Il giorno dopo all’arrivo era raggiunte, sembrava non fosse accaduto nulla e ad ogni battuta rispondeva con una fragorosa risata, il giorno dopo a Moena si presentò addirittura prima di tutti al foglio firma per riuscire a fare tutte le interviste anche quelle che l’organizzazione non prevedeva, era felice e si fermava da chiunque lo chiamasse, firmava autografi e faceva ciao con la mano a tutti i bambini. Lo lasciai così con la maglia rosa perché dopo 8 giorni di giro dovetti tornare a casa, ma in cuor mi speravo di rivederlo vestito in quel modo.
Poi vennero venerdì e sabato, Tom cercò di limitare i danni in salita, alla fine di tutto il suo ritardo era solo di 53 secondi , ma la rosa apparteneva al colombiano. Sotto il sole cocente di Milano gridavo all’impresa, un po’ quel clima mi ricordava Bellinzona, quando lo avevo conosciuto, per molti la sua vittoria era scontata, per me invece che avevo l’ottimismo sotto i piedi provate solo ad immaginare… Al suo arrivo fece segnare il secondo tempo, gli corsi dietro fregandomene di tutti gli altri, lo devo dire, in quel momento la sua vittoria era l’unica cosa che mi importasse. Dagli speaker arrivavano notizie discordanti: comunicavano che il suo vantaggio si Quintana era di soli 3 secondi e che il piccolo scalatore si giocava il giro agli ultimi metri. Poi il boato, la folla di colombiani che intonava canti a gran voce, “oddio ha vinto quintana”, il panico, poi ho visto Ten Dam saltare ed urlare come un pazzo, in quel momento ho capito: era fatta!
Sul podio il caro Tommy, è così che affettuosamente amo chiamarlo, non faceva che sorridere, ma nemmeno i coriandoli potevano nascondere la sua emozione e la sua incredulità, il numero di tifosi olandesi era ridotto, i colombiani con i loro cori coprivano tutto; poi c’eravamo noi, due o tre pazzi tra i fotografi che sotto il podio urlavano un energico “vai Tommy!”. Mai avrei pensato che quel pensiero così utopistico sarebbe potuto diventare realtà, nemmeno lui se lo immaginava tant’è che più tardi lo definirà come un sogno che non cambierà però la sua vita, rimarrà un uomo normale, senza fama e senza gloria.
Domoulin è un ragazzo particolare, il suo essere umano si mischia al suo essere campione in bicicletta, perché sì anche se non vuole ammetterlo un campione lo è eccome. È sempre rimasto se stesso, nella sua gentilezza e nel suo riservo, fregandosene delle critiche venute da tutti coloro che non lo conoscono affatto, anzi chiedendo pure scusa quando ad avere torto erano gli altri. Tommy è fatto così, abituato a correre contro il tempo si è trovato con lo sconfiggere i giganti delle montagne, non ha mai chiesto nulla, ha sempre sorriso e detto grazie, quel piccolo inchino sul podio penso che possa essere la piccola prova di tutto ciò.